Nel panorama sempre più ricco dei giochi di ruolo narrativi indipendenti, Rosewood Abbey, scritto da Kalum dei The Rolistes e localizzato in italiano con grande cura da Grumpy Bear Stuff, rappresenta un esperimento affascinante e audace. Si tratta di un gioco che sfida molte convenzioni del genere fantasy e investigativo, scegliendo un approccio del tutto peculiare: niente magie, niente demoni reali, niente combattimenti epici. Qui, il mistero nasce dalla polvere degli scriptoria e si aggira silenzioso tra chiostri e confessionali, avvolto nei canti monastici e nei silenzi carichi di sospetto.


L’opera si presenta come un gioco “monastico sulla verità e le sue conseguenze”, e già questa definizione suggerisce una profondità insolita. Il setting è un’abbazia del dodicesimo secolo, immersa in un’Europa filtrata attraverso la lente del folklore vallone, fiammingo e tedesco. Ma non c’è bisogno di essere esperti di storia medievale per sedersi al tavolo: l’autore stesso invita i giocatori a usare l’ambientazione come ispirazione, non come vincolo. Le verità storiche possono essere rispettate o piegate, purché si mantenga integro il tono.
Il cuore pulsante del gioco è l’Abbazia di Palissandro, un luogo immaginario ma profondamente radicato nel folklore vallone, fiammingo e tedesco. Questo monastero medievale è più di una semplice ambientazione: è un microcosmo in cui si intrecciano fede, superstizione e la ricerca della verità. I monaci e i laici che vi abitano interpretano ogni evento straordinario come un segno divino o una manifestazione demoniaca, creando un clima di tensione e mistero. Le voci si diffondono rapidamente, alimentando sospetti e timori che i giocatori dovranno affrontare e decifrare.
I protagonisti del gioco sono i Fratres Herodoti, una confraternita informale di studiosi dediti alla ricerca della conoscenza e della verità. Questi monaci investigatori si trovano spesso a dover svelare i misteri che circondano l’abbazia, affrontando le dicerie e le credenze popolari con razionalità e spirito critico. Ogni personaggio è definito da tratti morali come l’Ira, la Speranza e la Carità, che influenzano le loro azioni e decisioni durante il gioco. La creazione dei personaggi è flessibile, permettendo ai giocatori di interpretare figure diverse, inclusi personaggi femminili travestiti da uomini, riflettendo la complessità e la diversità del mondo medievale.

La struttura del manuale è sorprendente. Le prime novanta pagine sono dedicate a un “Replay”, una trascrizione narrativa di una vera sessione di gioco. Può sembrare un azzardo editoriale, e lo è, ma si rivela una scelta vincente. Kalum non si limita a mostrarci cosa succede al tavolo, ma ci guida nell’atmosfera del gioco, nel suo ritmo, nel modo in cui il Cantore (il ruolo equivalente al master) media tra i personaggi, i toni e le aspettative. La lettura del Replay è, a tutti gli effetti, un’immersione graduale nel mondo di Rosewood Abbey. Si ride, ci si sorprende, si riflette. I protagonisti, Leoric il casaro, Federico l’apicoltore-filosofo e Lazarus l’ossarista accompagnato dalla cornacchia parlante Boccaccia, sono profondamente umani e memorabili, e rendono l’esperienza più vicina a una fiction di qualità che ad un vero e proprio tutorial.
L’impianto regolistico di Rosewood Abbey si appoggia su fondamenta PbtA (Powered by the Apocalypse) e più precisamente è un “Carved from Brindlewood”, essendo nato in origine come “hack” di “I Misteri di Brindlewood Bay” (qui la nostra recensione) ma che prende una strada tutta sua. Al centro delle meccaniche di gioco c’è il “Giro di Voci”, una meccanica narrativa che struttura la progressione del mistero attraverso le dicerie che circolano tra i confratelli e i laici del villaggio adiacente all’Abbazia di Palissandro. Non si cerca una verità “giusta”, quanto piuttosto quella “creduta” e quindi quella che genera conseguenze. Le mosse dei personaggi sono tematicamente coerenti, dai nomi evocativi come San Cosma e San Damiano o Santa Gertrude la Pifferaia, e si legano a tratti come l’Ira, la Speranza, la Carità, che costituiscono un asse morale profondo, parte integrante della meccanica di avanzamento e dei tiri di dado.
Un altro elemento distintivo è la scelta di bandire completamente il soprannaturale. Questo non significa che non se ne parli, al contrario, la fede, i miracoli, i segni e i presagi sono onnipresenti. Ma sono sempre spiegabili. Se il villaggio teme che una rosa sbocciata d’inverno sia presagio di sangue, sta ai monaci e ai giocatori indagare senza cedere alla superstizione. Il gioco affonda le sue radici proprio in questo: nel contrasto tra spiritualità e razionalità, tra fede e dubbio, tra verità e percezione. I personaggi non sono eroi, né santi, ma uomini (o donne travestite da uomini, se lo si desidera) che tentano di mantenere l’ordine in un mondo fragile.

Eppure, Rosewood Abbey non è mai pedante o cupo. Al contrario, è percorso da un’ironia sottile, da un’umana tenerezza per le piccole manie dei suoi protagonisti: il casaro ossessivo con le chiavi, l’apicoltore con il suo aquilone, l’ossarista che parla con una cornacchia blasfema. Gli oggetti – le “Gioie nelle Piccole Cose” – non sono solo risorse meccaniche per ottenere vantaggi ai tiri, ma diventano veicoli di caratterizzazione, piccoli frammenti di umanità che colorano ogni scena.
Il gioco richiede un tavolo di giocatori affiatati, desiderosi di esplorare personaggi interiorizzati e lenti sviluppi investigativi. Non c’è un sistema di combattimento, non ci sono “statistiche” classiche, né un percorso di crescita meccanica. Tutto ruota attorno alla narrazione condivisa e all’uso sapiente delle Virtù e dei Peccati, che si spuntano per migliorare un tiro ma a prezzo di flashback che rivela i lati oscuri del personaggio. Ogni scelta ha un peso, ogni indizio è un frammento nel mosaico della percezione collettiva.
La componente estetica del manuale è degna di nota. La versione italiana mantiene l’equilibrio grafico dell’originale, con un layout chiaro ma ispirato, immagini selezionate con cura, e una voce autoriale che traspare da ogni pagina. Il tono è coerente, a tratti lirico, sempre evocativo. È evidente quanto Kalum abbia riflettuto non solo sul sistema di gioco, ma anche sull’esperienza culturale e sensoriale che Rosewood Abbey intende offrire.
Nel volume, inoltre, sono presenti diversi misteri già pronti all’uso, in modo da facilitare il compito del Cantore e spiegazioni dettagliate su come prepararne di originali e su come imbastire le sessioni di gioco.

Se si dovesse trovare un difetto, sarebbe forse nella sua accessibilità. Non è un gioco per principianti assoluti: richiede un minimo di familiarità con giochi narrativi moderni e la mancanza di una struttura modulare può rendere la prima lettura del manuale un po’ disorientante. Ma questo non è un problema, è una dichiarazione d’intenti. Rosewood Abbey non cerca compromessi: vuole essere un’esperienza densa, adulta, capace di stimolare riflessioni su temi rari per un gioco di ruolo come la fede, la menzogna e il compromesso morale.
In definitiva, Rosewood Abbey è un gioco che parla sottovoce ma lascia un eco profondo. È un invito a rallentare, a raccontare insieme storie intime e complesse, in cui la verità è un concetto fragile, custodito tra le pieghe di un saio e i margini di un codice miniato. Un gioco che, come i suoi monaci dell’Abbazia di Palissandro, cerca la sapienza tra le ombre della storia, con la consapevolezza che anche nel silenzio possono germogliare rivoluzioni.
*Copia fisica e digitale del manuale in inglese fornite da Kalum in cambio di una recensione onesta, copia fisica e digitale in italiano acquistate dalla redazione in pre-ordine da Grumpy.